UN POPOLO IN DUE STATI, DIVISI E MAI PACIFICATI (Seconda Parte)

Day 4,408, 16:38 Published in Italy Italy by Marcello Mastroianni

Cari e affezionati lettori,

Proseguiamo ora con la seconda parte del nostro racconto che continua la storia pubblicata nella sua prima parte, e che se volete rileggere troverete, dopo l'articolo della "fattoria degli animali".
Non so sinceramente quante parti verranno fuori, ma spero che vi appassionate sempre più numerosi e commentiate liberamente.
Sono purtroppo molto impegnato ma appena ho tempo mi dedico volentieri al racconto.
La prima parte è stata dedicata a tre giocatori, e anche questo e i prossimi racconti verranno dedicati ogni volta a tre giocatori diversi.
Spero di riuscire a mettere in tutti i racconti i nomi di tutti voi, così da lasciarli a futura memoria della comunità italiana.
Potrete così dire con orgoglio un giorno lontano: "c'ero anch'io nei racconti del piccolo giocatore dal grande cuore noto come Il Resiliente 🙂 ", buona lettura a tutti voi:

“Ragazzo, sai qualcosa di questa guerra qui?” Tuonò il vegliardo abbozzando un mezzo sorriso e inarcando le sopracciglia mentre mi fissava intensamente coi suoi occhi ancora di un blu brillante. Aveva visto che osservavo la scritta e mi ero perso nei ricordi. Il vecchio combattente sarà stato sicuramente un biondo avvenente da giovane, ma ora di quel tempo ormai perduto, conservava probabilmente solo quegli occhi brillanti come due gemme preziose.
“Mi scusi signore” risposi io un po’ impacciato “mi veniva in mente mio nonno, buon anima, che spesso sentiva il desiderio di raccontarmi della seconda guerra mondiale, come se volesse svelarmi degli antichi segreti rievocando i propri ricordi, traumatici sicuramente, perché poi si rabbuiava e si stendeva un velo nei suoi occhi e gli pesava soffermarsi su certi particolari dolorosi, terribili, che però riusciva a rendere semplici e leggeri, parlando a un nipote giovane, vissuto nella pace e nel benessere come me e che non andava turbato, che bisognava lasciare compagno dei sogni più belli e non preda di incubi notturni…” un forte bruciore ravvivò il mio collo “ ahio ma che diavolo è che…” mi poggiai immediatamente la mano dietro il collo come per frenare un incendio ma da quella voce pigolante alle mie spalle, capii che la biondina si era rifatta viva, ed era tornata alla carica.
“Insomma si può sapere che diavolo stai dicendo! Fa silenzio ora e fatti più in là!” Mi sferrò uno dei suoi colpi di anca che l’avevano resa famosa un tempo lontano, quando a scuola amava farsi rispettare sia dai compagni che dalle compagne di classe e “spodestare” gli indesiderati dalle sedie di suo interesse del momento per parlare con qualcuno in particolare. “Hey ma che modi sono, stavo solo raccontando…”, “sì lo so che raccontavi, cosa credi, io ho due orecchie apposta sai, con una ascolto il mio interlocutore principale e con l’altro sorveglio te” e mi diede un altro scappellotto questa volta un po’ più dolce. Proseguì: “Tu sei bravo a raccontare ma quando parli o scrivi in italiano puoi far da solo, qui siamo in terra americana e se permetti l’inglese è il mio campo” mi disse strizzandomi l’occhio e stendendo un po’ la linguetta di lato.
Quella biondina dai modi spicci sapeva essere furiosa come un toro scatenato ma anche dolce come un dessert quando lo voleva.
Intanto avevo preso alla svelta una sedia e mi ero posizionato affianco a lei, difronte al mio interlocutore che ci guardava con aria sorpresa ma sorridendo, in fondo potevamo essere suoi nipoti.
La biondina si presentò in maniera galante al veterano e gli spiegò che lei era una esperta di lingue e quindi poteva far meglio interagire noi due nel discorso comune.
Nel frattempo altri tavoli erano apparsi vicino al nostro ed apparecchiati di tutto punto ci si preparava a mangiare assieme. I miei amici avevano deciso di unirsi a noi e rinunciare ai loro discorsi per ascoltare una storia sconosciuta.
“Dunque voi siete tutti italiani e siete qui come turisti. A me sarebbe piaciuto fare il turista in Italia e in Korea, sapete avevo la vostra età quando fui inviato in quei posti, ma purtroppo invece di una guida turistica mi venne data un’arma semiautomatica da portare sempre con me”. Il vegliardo aveva preso a gesticolare cautamente e a posizionarsi comodo per un racconto che pareva lungo e denso di significati. “Di un po’ ragazzo e tuo nonno dove andò a combattere?”. Guardando la biondina negli occhi pronta a tradurre con un inglese fluente e impeccabile nella pronuncia, risposi: “Mio nonno era nell'esercito italiano di occupazione in Dalmazia, nel territorio Jugoslavo, inviato li in qualità di fascista per combattere affianco ai tedeschi nella guerra di occupazione ma dopo pochi mesi, causa il rovesciamento di Mussolini e l’assunzione del potere di Badoglio, si ritrovò senza ordini e i superiori di grado dissero alle truppe che potevano scegliere liberamente da che parte schierarsi e se restare o tornare in Italia. Mio nonno decise di restare e combattere assieme alle Brigate Jugoslave comuniste di Tito che si stavano costituendo per la guerra di resistenza contro l’invasore tedesco, signore”.
Non saprei dire con certezza se fu la voce o la traduzione della biondina a far cambiare aspetto del volto del vegliardo o se fu forse il racconto di un nipote di suo nonno, allora giovane come il nipote che fa una scelta difficile e coraggiosa ma piena di rischi e incertezze, sta di fatto che il combattente esordì di botto: “figliolo tuo nonno fu coraggioso a scegliere di restare e combattere coi più deboli per difenderli dagli stranieri invasori più forti, questo è sempre il modo corretto di scendere in guerra, difendendo i sani principi, lottando dalla parte dei giusti per il bene di tutti. Solo così alla fine si raggiunge la vittoria. Ma le cicatrici che tuo nonno porterà poi nell'anima, quelle non potrà cancellargliele nessuno e lo accompagneranno sempre fino al suo ultimo giorno, proprio come fanno con me”.
Il veterano quindi tirò un fazzoletto consunto da una tasca e si portò rapidamente la pezza sulla fronte, strofinandola velocemente e con mano tremante. Riposto il fazzoletto, tornò a parlare nuovamente: “quando si vive felici e spensierati e si è dei gran lavoratori di campagna come ero io, si rimane sempre colpiti nel vedere i reclutatori arrivare con quelle auto e camion attrezzate di tutto punto per la loro Propaganda Patriottica. Il loro sorridere, il loro parlare, i loro gesti, sono tutti studiati e provati attentamente, da veri e consumati attori, anche se quando li vedi la prima volta ti sembrano degli angeli caduti dal cielo e venuti a portare la pace qui in terra.
Io vivevo bene nella mia fattoria, felice coi miei genitori, allegro con i miei amici e innamorato della mia bambolina. Non avrei avuto nessun motivo per desiderare di combattere, io ero già libero, avevo tutto e non mi mancava nulla. Ma quando si è giovani e non si è sofferto, si è sempre dei sempliciotti, pronti a farsi ingannare da quegli attori così belli e affascinanti nelle loro divise stirate e nelle loro scarpette tirate a lucido.
Quegli uomini profumati come se fossero appena usciti da un contenitore di profumo, coi capelli lucidi di brillantina e senza alcun difetto fisico ti parlavano della guerra come se fosse una partita di baseball, dello sparare con le armi come i cow boys nelle praterie contro gli indiani, della gloriosa missione di portare Libertà e Democrazia ovunque come si distribuisce il latte e i giornali al mattino tra le case. Ti facevano credere di essere come un Apostolo al tempo di nostro Signore, che una volta ottenuto lo spirito santo in dono, sapevano parlare, leggere e scrivere miracolosamente 80 lingue, erano in grado di fare miracoli di ogni tipo, ricacciavano persino i diavoli nell'inferno da cui erano venuti con le loro sole preghiere.
Il guaio era che le loro parole avevano su di noi, giovani ragazzi americani, un effetto magico, ci sembrava di essere davvero in un momento storico decisivo, ci facevano credere di essere in grado di realizzarlo, con le sole nostre forze, per tutta la nazione. Ognuno di noi si vedeva già tornare a casa con la sua bella divisa, coi suoi galloni lucenti sull'uniforme, con le ragazze che ti attorniavano come api attorno ad un fiore e ti chiedevano di essere il loro cavaliere e accompagnarle al ballo di fine anno di scuola.
Poi ti ritrovavi di colpo dal sindaco, che davanti a tutta la città riunita in piazza, su un palco tutto inghirlandato, ti consegnava le medaglie al valore che col sole che gli si rifletteva sopra quasi ti accecavano per il bagliore. Che spettacolo sentire la banda al completo intonare l’Inno Americano e poterlo cantare con forza poggiando la mano destra sul cuore e sentire quelle fredde e pungenti stelline decorative sul petto pungerti le dita.
Ti vedevi poi in birreria, con tutti quei ragazzi del collage che ti circondano e ti chiedono, offrendoti continuamente un bicchiere dopo l’altro, di raccontargli quell'episodio in cui salvasti il tuo compagno, o di quella volta in cui il tuo ufficiale superiore cambiò la propria decisione a causa della tua osservazione riferitagli dopo una difficile perlustrazione.
Tu ti immagini sempre lì, tra i vapori delle birre che scorrono a fiumi, che arricchisci ogni volta la tua narrazione eroica decorandola sempre di nuovi e più incredibili particolari che lasciano sempre a bocca aperta i tuoi attenti ascoltatori”.
A quel punto vidi un repentino cambio nell'espressione del vecchio veterano di guerra che si tradusse in una diversa tonalità della voce, ora più rauca e profonda, venata di tristezza e di rabbia. Strinse forte i pugni, al punto che vidi le palme delle sue mani divenire bianche dalla forza con cui gli si stringevano contro le dita chiuse a pugno. Il combattente batté improvvisamente entrambi i pugni sul tavolo, con un suono così forte, improvviso e rabbioso che tutti gli oggetti sul nostro tavolo per un attimo sembrarono sollevarsi e levitare sopra il tavolo, per poi tornare a posarsi esattamente dai punti dove si erano sollevati e senza far rumore, quasi che gli stessi oggetti avessero avuto paura, ricadendo, di disturbare il racconto del militare.
“ No figliolo mio, questo è solo un sogno, questo è ciò che quei fottutissimi bastardi ti fanno credere e che, furbi come il demonio e con la lingua biforcuta come vipere velenose, ti fanno credere una cosa che non avverrà mai per tutti, forse per qualcuno più fortunato, ma non per tutti, no…” fece una pausa che sembrò durasse una eternità, girò lentamente la testa guardandosi da destra a sinistra e scrutando negli occhi tutti i suoi spettatori, che lo guardavano attoniti, persino gli inservienti, notai io con la coda degli occhi, sembravano essersi fermati, immobili, con le loro cose per le mani.
Sembrò che il tempo si fosse fermato per un attimo e solo quel vecchio riuscisse ad esserne libero mentre tutti noi attendevamo che finito di riprendere fiato il vecchio continuasse il suo discorso. La testa si fermò al centro, il vecchio mi fissò intensamente e quasi volesse parlare alla mia anima, mi sembrò di riconoscere in quello sguardo tremendamente sincero, lo sguardo di mio nonno che raccontava della Jugoslavia.
Si, forse quello è lo sguardo che in fondo hanno tutti i soldati, dopo che ritornano vivi dalle loro battaglie, di tutte le epoche, di ogni parte del mondo, perché la guerra in fondo è sempre la stessa stupida e inutile tragedia che segna i corpi, le menti e soprattutto le anime di coloro che ne sono servitori per qualche tempo e che quando tornano a casa, non saranno mai più gli stessi ragazzi che furono quando partirono…

Il racconto è dedicato ai tre giocatori e amici: Zar , Titan e Il Kaiser
Non perdetevi la terza e avvincente parte 😉

Saluti,

IL RESILIENTE
L'INDIPENDENTISTA