Diario di guerra, Giorno 1145

Day 1,146, 02:30 Published in Italy Croatia by Squatriota

Questa è la mia prima esperienza in questo genere, spero che vi piaccia, è la narrazione della battaglia di ieri, contro la Slovenia nella Marche (regione successivamente persa) quando, alle 5.30, causa insonnia, ho fatto un 31k di danni.




Quel giorno mi alzai di buona lena, alle prime luci dell’alba, pagai il conto all’oste e, sellato il mio cavallo, mi allontanai al trotto. Qualche giorno prima ero stato chiamato al fronte, per difendere il suolo italiano. Dovevo raggiungere una cittadella fortificata nel marchigiano, dove organizzare le difese della regione dall’attacco degli Avari.

Attraversai una verde radura desolata. Mi soffermai ad ascoltare il fruscio dei fili d’erba imperlati di rugiada che ondeggiavano sospinti dalla fresca brezza mattutina, che rendeva frizzante e leggera l’aria del mattino. All’orizzonte, il sole faceva capolino al di là delle montagne non molto lontane, ad illuminare, con delle striature rosate, il terso cielo.

Dopo poco, la radura incontaminata lasciò il posto a dei prati recintati, dove delle mucche pascolavano placide e, più in la, a dei campi coltivati, dove lavoravano alla semina dei contadini piegati che mi salutarono con un cenno., con le polverose strade contornate da covoni. Oltrepassati i campi, mi imbattei in un piccolo e limpido ruscello, sormontato da un ponte di legno e pietra, che portava al villaggio, che si stava svegliando, destato dal canto dei galli. Alcuni degli abitanti stavano già lavorando, come il macellaio che metteva in mostra i suoi pezzi di carne, il calzolaio che cuciva il cuoio, i venditori di stoffe e di pesce allestivano i loro banconi nel mercato, in un’armonia di suoni che si legava al tacchettio cadenzato del mio cavallo al trotto, e lo sbattere dell’ascia allo scudo.
Superai il villaggio e la valle. Sentii dei rumori provenire dalla vallata oltre le montagne. Era il suono delle violente scosse degli onagri, così forti da ricordare i calci degli asini.

Così, indossai la maglia di ferro e quella di cuoio e l’elmo, bardai il possente cavallo con la piastre d’acciaio, legai alla schiena la fodera della spada, presi lo scudo e l’ascia ed attraversai il valico, giungendo in una vallata.

Lì, alcuni nobili e cavalieri alla testa di un piccolo gruppo di fanteria formata da contadini cercava di contrastare l’avanzata degli Avari, e difendere il piccolo villaggio oltre le montagne, ma, in evidente inferiorità numerica, erano in difficoltà e arretravano. Avevano tentato di cogliere il nemico di sorpresa, negli accampamenti nel bosco, e la battaglia si era spostava nella prateria. Evidentemente, avevano tentato di uccidere i nemici con le fiamme. Le colline con cui la valle si alzava poco erano coperti da alberi rinsecchiti e brulli, come se fosse divampato un incendio. Anche gli sparuti alberi della valle erano spogli e secchi, e protendevano i rami verso il cielo, come a questuare un aiuto dal cielo. Ma il cielo, coperto di nubi e cupo, così diverso dal purezza del cielo oltre le montagne, così vicino eppure così lontano, dall’impazzare della guerra, in quella valle che stava assistendo ad uno spettacolo pietoso, irrigata dal sangue e fatta marcire dal puzzo dei cadaveri e delle ferite infettate dei combattenti. L’aria era pesante. Frastornato da quei rumori e da quegli odori mi distrassi, mi risvegliai per il vorticare del corvo nemico che, mulinando, falciava e mieteva vittime tra i miei alleati. Palleggiai l’ascia e la lanciai verso la macchina e, roteando, si abbatté sulla trave a cui era attaccata la falce, spezzandola. Così, estrassi la spada dalla vagina e mi lanciai nella mischia, affrontando i nemici che avanzavano in gran numero.

Impegnato a duellare contro alcuni mercenari saraceni, mi accorsi troppo tardi dell’arciere che mi stava mirando, in tempo per vedere uno dei suoi dardi oltrepassare la maglia di cuoio e quella di ferro e conficcarsi nella mia pancia. Il dolore era così lancinante che persi il controllo del cavallo e mi ritrovai appeso all’imbracatura per la gamba a testa in giù sanguinante. Il cavallo terrorizzato per la vista e l’odore del sangue prese a correre verso le colline. Tagliai l’imbracatura con la spada e caddi nella terra polverosa. Mi rimisi in piedi con uno scatto, appena in tempo per parare il fendente di un energumeno armato di francesca. Ma, il secondo affondo, mi fece volare via la spada e il franco, colpendomi di piatto con l’ascia mi fece cadere a terra, tenendomi la testa giù con lo stivale, alzando l’ascia in alto per darmi il colpo di grazia.

Improvvisamente, però, ilo fragore delle spade, il galoppo dei cavalli e i lamenti dei feriti si tramutarono in un unico e indistinguibile rombo, un silenzio surreale, interrotto dal tonfo dell’ascia che cadeva a terra a pochi centimetri dalla mia testa e dei passi che affondavano nel terreno polveroso e del rumore di un copro che cadeva a terra. Mi alzai di scatto, il franco che prima mi teneva minacciato era a terra, con un rivolo di sangue che gli colava dal labbro e una lancia conficcata nella pancia. Mi girai simultaneo, per scoprire chi era stato il mio salvatore. Guardai una donna a cavallo su un cervo, con altre lance come quella nella faretra. Era la dea Agrotera, la dea della caccia. Poi mi guardai il torace. Era comparsa una fasciatura sulla ferita provocata dal dardo. Mi rigirai per ringraziare Artemide, ma la dea era sparita. Mi accorsi che un arciere stava prendendo la mira e, staccando l’ascia dal terreno, gliela scagliai addosso, uccidendolo. Mi avvicinai al franco morente ed estrassi la lancia. Era ricoperta di ederea. Armato della lancia della dea Artemide, mi lanciai di nuovo nella mischia. Vidi che il generale della truppa scappava a cavallo verso le colline. Palleggiai la lancia tra le mani e la lanciai verso di lui. La lancia proseguì come guidata e si andò ad infilare nel collo, tra l’elmo e l’armatura, sbalzando il cavallo a terra, che cadde da cavallo e rimanne a terra agonizzante, finché, in un lago di sangue, spirò. Arrivarono anche altri cavalieri e gli avari stavano ripiegando nell’accampamento. Avevamo vinto la battaglia.